Speciale by
Cornelia I. Toelgyes
Sono passati 6 anni dalla terribile notte a Chibok. Tra il 14 e il 15 aprile 2014 sono state sequestrate 276 studentesse da miliziani di Boko Haram nella cittadina di Chibok, nel Borno State, nel nord-est della Nigeria. Alcune ragazze sono riuscite a scappare quasi subito. Altre sono state liberate in seguito. A tutt’oggi mancano ancora all’appello oltre 100 di loro. Non si sa più nulla. Forse alcune sono state convinte dai loro aguzzini, dopo aver subito un lungo lavaggio del cervello, a farsi saltare in aria.
Al momento del rapimento le ragazze si trovavano in un collegio, uno dei pochi ancora aperti a causa dei continui attacchi dei terroristi, per sostenere gli esami di fine anno.
Le studentesse dopo il loro rapimento, in mano a miliziani di Boko Haram
Nel 2014 il mondo intero si era indignato per il loro rapimento e dopo poche ore nasceva l’hashtag #BringBackOurgirls, oggi scomparso totalmente e dimenticato, come le ragazze ancora in mano ai terroristi.
Da allora nel nord-est della Nigeria poco è cambiato e nemmeno nei Paesi confinanti. I sanguinari terroristi continuano le loro aggressioni, i sequestri, uccidono la povera gente, i militari, rapiscono operatori umanitari e abitanti dei villaggi, terrorizzano la popolazione.
I genitori delle “Ragazze di Chibok”, oltre 100 famiglie, attendono ancora oggi risposte concrete dal governo nigeriano, dal presidente Muhammadu Buhari, ex golpista del 1983, poi eletto democraticamente nel 2015 e riconfermato per un secondo mandato lo scorso anno, dalla comunità internazionale.
Ruth (un nome fittizio) è una delle ragazze rapite. Ha avuto la fortuna di tornare a casa. Racconta che il primo anno è stato terribile: “Mi picchiavano, mi violentavano, il cibo era scarso. Ero disperata. Tutto il mio corpo era sempre indolenzito. Poi un giorno ho chiesto di convertirmi all’islam. Solo allora le cose sono un po’ cambiate. Ho dovuto sposarmi, ma finalmente avevo una camera tutta per me. Dopo poco ho partorito un figlio”.
“Non avevo mai smesso di sperare che qualcuno venisse a prendermi per portarmi a casa. Cercavo di trovare un modo per scappare ogni volta che andavo a lavare i miei vestiti. Poi, un pomeriggio nel 2017 gli uomini sono andati via tutti, probabilmente per un nuovo attacco. Ho preso mio figlio e ho iniziato a correre, a correre, a correre…..nella braccia di mia madre. Lei era felice, ha iniziato a cantare, ha accolto me e mio figlio con immensa gioia. Non così mio padre. Non ha accettato mio figlio, mi considera ancora oggi un’infedele e così molte altre persone della mia comunità. Prendono in giro il mio piccolino, lo chiamano little Boko Haram. Il reinserimento non è stato facile, ma il tempo guarisce le ferite e sto cercando di ricostruirmi una vita”.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes