Speciale by
Massimo A. Alberizzi
Silvia e libera e oggi pomeriggio sarà in Italia. Altro che una ragazzina. Silvia è una grande donna a giudicare dalle prime parole: “Ho stretto i denti e ho resistito”. In attesa di conoscere i dettagli della sua liberazione cerchiamo di capire cosa c’è dietro il suo sequestro.
Una cosa è certa: Ibrahim Adhan Omar, Moses Luari Chende e Abdulla Gababa Wario fanno parte del commando che il 20 novembre 2018 ha rapito Silvia Romano nel povero villaggio di Chakama, in Kenya a un centinaio di chilometri da Malindi. Con loro altre quattro o cinque persone da allora irreperibili. Balordi Moses e Abdulla, capobanda invece Ibrahim Adhan Omar che avrebbe pianificato l’assalto e il rapimento.
L’unico veramente pericoloso, Ibrahim è stato arrestato a metà dicembre 2018 in un villaggio vicino Garissa. Nel suo covo i poliziotti hanno trovato un kalashnikov e un paio di casse di munizioni. Non è riuscito a dare una spiegazione plausibile ed è stato arrestato. Le prime indagini hanno appurato che era un cittadino somalo che aveva ottenuto i documenti kenioti corrompendo la commissione preposta a concedere naturalizzazioni e cittadinanze.
Nonostante un cospicuo curriculum pieno di reati di tutto rispetto, in galera c’è rimasto poco: infatti dopo aver pagato una cauzione pari a 25 mila euro (una cifra esorbitante da quelle parti) è stato rilasciato. Ha partecipato a un’udienza del processo e poi è sparito.
La decisione della Corte del tribunale di Malindi e della giudice Julie Oseko di concedere la libertà su cauzione era stata criticata duramente dalla rappresentante della pubblica accusa, Alice Mathagani, e dal capo della polizia, incaricato delle indagini, Peter Gachaja Murithi, che in un colloquio con Africa ExPress avevano esclamato quasi all’unisono: “Ma è una violazione della legge concedere la possibilità di pagare e uscire di galera. L’incriminazione è troppo grave e non permette una scappatoia di questo genere”.
Infatti una volta fuori di galera Ibrahim aveva fatto perdere le sue tracce. Peter Gachaja, aveva sommessamente avanzato l’ipotesi che l’accusato potesse essere stato ucciso per non farlo parlare e raccontare i dettagli del rapimento. Dal canto suo Alice Mathagani aveva definito il sequestro “su commissione”. A tutt’oggi di lui non si sa più nulla.
Anche la fedina penale di Moses Luari Chende è di tutto rispetto. Era stato trovato con le mani nel sacco con una banda di bracconieri a caccia di elefanti. Probabilmente per questo è stato arruolato dai rapitori. Lui conosce molto bene i territori che sono a cavallo tra la Somalia e il Kenya e si muove come un pesce nell’acqua nell’impenetrabile foresta di Boni che è al confine tra i due Paesi e dove è stata portata Silvia subito dopo il rapimento. Per i suoi servigi Moses avrebbe dovuto essere ricompensato con 100 mila scellini, più o meno 900 euro ma invece gli altri banditi, la notte del rapimento, l’avevano abbandonato nelle foresta con un “Ci vediamo domani” e invece erano spariti. Questo racconto l’ha fatto alla polizia quando a metà dicembre era stato catturato e gettato in guardina. Anche lui ha pagato la cauzione (sempre 25 mila euro), è tornato in libertà, ma a differenza di Ibrahim non è scappato. “L’abbiamo messo sotto torchio – avevano raccontato alla polizia – ma non ci ha raccontato nulla”.
Il terzo uomo Abdulla Gababa Wario, sembra invece sia stato arruolato come pura manovalanza. Conosciuto dalla polizia keniota per piccoli furti e altri reati è l’unico che non è riuscito a trovare un amico pronto a pagare la cauzione. E così è rimasto in galera tutto il tempo senza riuscire neanche a spiegare perché faceva parte del commando.
Durante l’inchiesta svolta da Africa ExPress (resa possibile dal determinante aiuto finanziario dei nostri lettori) e dal Fatto Quotidiano erano emerse due tesi sulla sorte di Silvia: quella catastrofista dell’esercito secondo cui la ragazza era morta e c’era da mettersi l’animo in pace e quella degli inquirenti, la pubblica accusa e la polizia, che non hanno mai smesso di pensare che Silvia fosse viva.
Secondo la loro opinione subito dopo il rapimento la volontaria di Africa Milele è stata tenuta prigioniera in Kenya. Le frontiere erano sigillate. Quando la sorveglianza si è allentata è stata trasferita in Somalia a un primo gruppo ma è rimasta nel sud dell’ex colonia italiana. Solo più tardi è stata portata verso Mogadiscio, nella zona della città portuale di Merca. Ed è lì che turchi e somali l’hanno trovata.
Massimo A. Alberizzi
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