Potremmo superare il dolore della memoria selezionando per quanto possibile gli avvenimenti passati per ricordare soprattutto gli istanti, anche se pochi, di felicità. Tutto si riduce nella nostra capacità di dimenticare le afflizioni e di tesaurizzare le gioie.
Un convegno in casa di un amico psicologo, sul tema del dolore e dal titolo “L’elaborazione del lutto: come superare il dolore”, ha suscitato un interessante scambio di opinioni tra gli ospiti e mi offre ora lo spunto per le seguenti riflessioni.
Nella foto, in alto: una separazione dolorosa
Chi non vorrebbe dimenticare tutte le proprie delusioni e sofferenze, se solo fosse possibile? Come affermato dal poeta inglese George Gordon Byron, “il ricordo della felicità non è più felicità, il ricordo del dolore è ancora dolore”. Le esperienze negative ci segnano nel profondo, a differenza delle gioie, dando vita a fobie, traumi, psicosi.
E’ meglio allora ricordare o dimenticare? Questo è il dilemma. L’inquietante domanda nasce dalla constatazione che i dispiaceri e le afflizioni si reggono spesso sulla nostra capacità di non dimenticare. Ma anche la nostra capacità di evitare tribolazioni consiste nell’avere memoria dei particolari e degli errori che sono stati commessi, per non ripeterli.
È meglio allora avere una memoria di ferro, che permette di conservare le emozioni legate a ciascun ricordo, di custodirne ogni traccia e dettaglio, oppure avere una memoria più blanda, meno precisa, disposta a trattenere solo certi episodi e a passare sopra ad altri e a cancellarli con un colpo di spugna?
Meglio senz’altro ricordare che dimenticare, fosse anche ritenuto come il male minore. Abbiamo tutto da guadagnare possedendo una memoria buona e duratura, e tutto da perdere in caso di oblio e amnesia.
Secondo la psicoanalisi, peraltro, noi non dimentichiamo mai niente in realtà, perché tutte le nostre esperienze vengono conservate nell’inconscio: una specie di archivio, come la memoria rigida di un computer, perfezionatosi con l’evoluzione dell’uomo, in cui niente viene perduto o distrutto. Il “dimenticare” diventa allora una questione di rimozione o repressione, dovuta solamente al timore di risvegliare determinati ricordi.
Dobbiamo ammettere che spesso non poter dimenticare può diventare terribile, insopportabile, pericoloso, perché si può cadere nella malattia mentale. In ogni caso, se dovessimo ricordare tutto finiremmo per essere perseguitati dal passato e non vi sarebbe più posto, per così dire (più umanamente che scientificamente), per altri possibili ricordi, per nuove esperienze, magari anche in totale contrasto con quanto abbiamo in noi registrato o creduto.
Il dolore della memoria è allora la memoria del dolore?
Certo, volendo liquidare l’argomento basta ribaltare i termini della questione e rispondere di sì, che tutto si riduce nella nostra capacità di dimenticare le afflizioni e di tesaurizzare le gioie. Allora potremmo superare il dolore della memoria selezionando per quanto possibile – e facendo finta che l’inconscio, a dispetto di quanto insegna la psicoanalisi, sia manovrabile – gli avvenimenti passati per ricordare solamente gli istanti di felicità. Ma tale operazione risulta semplicistica e utopica, risultando impossibile per la complessità del carattere e dell’animo di ciascuno (“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe”, Montale dixit) comandarci l’oblio. Anche perché non tutto quello che vediamo nel passato come esperienza negativa che ha ingenerato afflizione può essere considerata a distanza di tempo un male, se ha dopo tutto contribuito alla nostra evoluzione personale temprando il nostro carattere (“Non tutto il male viene per nuocere”).
Una poesia di mia madre Lorenza Franco, che riporto di seguito, nella rassegnata constatazione che la vita è dolorosa, finisce con l’accettare stoicamente il passato con i suoi ricordi, perché tanto sono pensieri, il male si è concluso: resta alla fine solo il presente, in cui cercare altri pensieri, altre parole…
Nella foto, in alto: la poetessa Lorenza Franco
RICORDI
Perché un ricordo deve dar dolore?
E’ soltanto un pensiero, una parola…
Tanto tempo è passato, e il tempo vola,
e intanto si sbiadisce ogni colore.
Ma il cuore non lo sa che passa il tempo,
ci sono spine che fan sempre male,
e quando arriva quel colpo mortale,
sol, della vita, resta lo scontento.
Albe e tramonti più non danno gioia,
stanchi sorrisi abbozzi perché s’usa.
Il mondo è grigio pur se splende il sole,
e non si trova alcuna scappatoia
da una ferita che non s’è mai chiusa.
Altri pensieri cerca, altre parole…
Quindi la risposta sta in ciascuno di noi, secondo le nostre personali esperienze e il nostro percorso esistenziale, gli scopi che ci proponiamo e il nostro stile di vita. E’ la vita stessa, più di qualsiasi psicoanalisi, l’aiuto più efficace per il nostro sviluppo personale. La solidarietà e l’amicizia sono importanti nella soluzione dell’enigma. Se ci aiutassimo vicendevolmente a condurre un nostro autoesame – permettendoci di fare a meno di qualsiasi controversa psicoanalisi – non si riuscirà certamente a fare scomparire tutti i mali di questo mondo, ma si otterrà almeno di alleviare attriti e malintesi, alcuni odii, timori, offese e vulnerabilità di cui tali mali sono allo stesso tempo causa ed effetto. L’individuo isolato può essere invece solo vittima di se stesso.
Il dolore può essere visto, in definitiva, come un’occasione di evoluzione personale. La letteratura è piena di riferimenti in questo senso, basti ricordare alcune massime di uomini illustri: “La volontà si tempra nel dolore” (D’Annunzio); “Chi non sa soffrire non sa vivere” (Tommaseo), oltre ai soliti adagi popolari: “La virtù si affina e si esalta tra i patimenti”; “Le qualità migliori le svelano i dolori”; “Nessuno conosce se stesso finché non ha sofferto”.
Vi sono stati anche esempi negativi, come I dolori del giovane Werther, di J. W. Goethe, che, al di là del pregio letterario del romanzo, tanti suicidi ha ingenerato ancora dopo l’epoca dei romantici.
Il dolore, e la sua ineliminabile memoria, costituirebbe il motivo, se non attendesse alla funzione di crescita personale, per ritenerci vittime del destino, del karma, o di oscure trame divine, e ci porterebbe alla perdizione. Meglio allora ricordare la nostra imperfezione di esseri mortali ed assolverci pensando, più razionalmente, che la nostra stessa complessità di sentimenti può essere benefica: “L’uomo è un ponte. Egli deve creare l’avvenire e salvare il passato. Chi non può comandare a sé stesso deve obbedire. Superarsi. Bisogna possedere la gioia e l’innocenza, la colpa e il dolore; bisogna esser veridici. Il bene e il male sono idoli della fissità in un mondo che scorre” (F. Nietzsche, in Così parlò Zarathustra).
Spesso ci troviamo a riflettere chiusi in noi stessi, o coinvolti in sfoghi di amici, sollecitanti comprensione o conforto, per essere stati ingiustamente offesi, calunniati o fraintesi. E in tali occasioni ci lasciamo prendere da risentimenti e ci perdiamo dietro congetture nel tentativo di individuare il movente dell’onta subita, senza magari tenere in debito conto che quella è stata solamente un’occasione per stimolarci alla riflessione.
Il motivo autentico può essere molto più profondo e quel fatto di dolore deve costituire invece lo stimolo per un’autentica introspezione e presa di coscienza, per scoprire il vero bandolo della matassa e pervenire all’individuazione del più probabile imputet sibi.
Forse basterebbe trasferire nel futuro, nell’impossibilità di dimenticare, il nostro eccessivo legame con il passato, facendo progetti, prendendo iniziative, entusiasmandoci e incuriosendoci. Questa è la strada maestra verso una reinvenzione di noi stessi e una vita nuova.
Giovanni Bonomo