Non è un luogo comune che dietro ad un grande uomo (ragazzo, in questo caso) ci sia sempre una grande donna. È la mamma di Akira, ma non solo. Perché lei, di campioni, ne ha allevati non uno solo ma due, anzi tre!
Ciao, Patrizia! Grazie del tempo che ci hai concesso, innanzitutto, perché con la famiglia che hai, comprendiamo che trovarne non sia affatto facile. Vorresti raccontarci di te, di come ha avuto inizio tutta questa straordinaria avventura?
Ciao a tutti, felice di potervi raccontare la mia storia. Sono nata il 22 giugno, il primo giorno d’estate, ma l’anno non ve lo dico. Sono la prima di cinque tra fratelli e sorelle: due femmine e tre maschi, per esser precisi. Mia madre aveva solo diciannove anni quando sono nata io, e a ventinove aveva messo al mondo altri quattro figli. Nonostante fosse molto giovane e la casa fosse piuttosto grande, ordine e pulizia regnavano sovrane. Era una donna molto bella. Era molto dolce, ma con noi ragazzi aveva polso e sapeva come farsi obbedire. Io e mia sorella minore (di 4 anni più piccola) svolgevamo le faccende domestiche, aiutavamo la mamma nel suo lavoro di parrucchiera in casa, mentre nostro fratello doveva occuparsi dei lavori un po’ più maschili (giardino, sistemazione giochi, ordine scrivanie, ecc.) e non era assolutamente facile gestirci, perché litigavamo spesso. Smise di lavorare solo con l’arrivo del quarto e del quinto figlio.
A quei tempi, mio padre faceva il camionista e spesso era via di casa per tutta la settimana, quindi per mia madre era obbligo dover fare un po’ da “comandante”. Quando qualcuno di noi combinava qualche marachella ci puniva, ma erano cose lievi: i ragazzi di oggi non sanno nemmeno cosa fossero gli “zoccoli volanti” che ogni mamma usava come armi di distruzione di massa: se combinavi qualcosa te ne lanciava dietro uno. Erano in legno massiccio e facevano un male boia se ti beccava in pieno. Per fortuna ci prendevano sempre di striscio, ma non ho mai capito se la mamma sbagliasse mira volutamente o fosse lei che non era proprio capace di mirare giusto.
Il massimo della punizione consisteva nel mandarci a letto subito dopo cena, senza vedere il mitico “Carosello” (Per chi è troppo giovane per sapere cosa fosse, Carosello era uno spazio televisivo di una ventina di minuti di pubblicità di diversi prodotti, ma speciale, geniale. Non per niente ha fatto la storia della televisione. Era fatto in modo che piacesse particolarmente ai bambini: cartoni animati o brevi sketch divertenti con gli attori famosi dell’epoca)
Erano altri tempi, incredibilmente diversi da quelli attuali. Allora, di solito, in una famiglia, la moglie stava a casa a badare ai bambini, e così era anche da noi. Lavorava solo il marito, ma lo stipendio era sufficiente per mantenere anche cinque figli. Certo, non si nuotava nell’oro, si comprava solo l’indispensabile e i genitori si privavano di tante cose, ma non ci hanno mai fatto mancare nulla, soprattutto lo sport: corsi di tennis, lezioni di sci con gare annesse, maratone… tutti e cinque abbiamo fatto corsi di nuoto. Io e mia sorella non eravamo che due paperelle, ma i mei fratelli erano entrati a far parte di squadre agonistiche di nuoto e pallanuoto. Il più bravo di tutti era il secondo fratello, che però era piuttosto insofferente alle regole, e dopo i primi richiami all’ordine preferiva sempre abbandonare piuttosto che comportarsi meglio. Peccato, perché avrebbe potuto davvero fare molta strada! Gli altri due continuano tuttora con allenamenti amatoriali.
Quando non si faceva sport, casa mia era un porto di mare. A noi tutti piaceva stare in compagnia, così ogni occasione era buona per organizzare cene, pranzi, barbecue e ogni genere di festa. Il solo limite era l’orario: pensate che fin quando ho avuto quattordici anni, potevamo organizzare il veglione di capodanno in casa, con gli amici… ma di pomeriggio! Si chiudevano tutte le finestre per farci sembrare che fosse notte, e vai di stereo a manetta, luci stroboscopiche e ballare fino allo sfinimento. Conto alla rovescia fasullo con svariate ore di anticipo, e dopo le 21 tutti a casa e a nanna presto. Non ci fossero stati i miei fratelli minori, mi sarebbero sembrate davvero feste da ragazzi grandi!
Sembra quasi la famigliola perfetta del Mulino Bianco! Eppure sappiamo che dietro l’apparenza serena e felice ci fossero dei problemi veramente seri. Di cosa si trattava, esattamente?
Siamo stati davvero felici, ma incombeva su di noi qualcosa di tragico che ancora non sapevamo: alla mamma era stato diagnosticato un tumore che per quell’epoca era inguaribile, e ce lo tenne nascosto finché le fu possibile. Solo papà e le zie ne erano al corrente. Era una donna fortissima, la mamma. Amava noi, amava la vita e le rimase aggrappata con tutte le sue forze. Nonostante i medici le avessero diagnosticato al massimo un anno di vita (si era ammalata a trentun anni) tenne duro per dieci anni! Interventi chirurgici, medicinali e radioterapie sopportati senza mai mostrarsi abbattuta, senza mai lamentarsi per fare in modo che noi non comprendessimo la gravità della sua malattia, perché non lo dava per niente a vedere. Si arrese soltanto nel settembre dell’85, lasciandoci quando aveva soltanto quarantun anni. Io ne avevo ventidue e l’ultimo dei miei fratelli, dodici!
Per noi, la vita cambiò in modo radicale. Io avevo iniziato a lavorare da quando avevo quindici anni e frequentavo le scuole serali, così toccò a mia sorella, allora diciottenne, occuparsi in tutto e per tutto della casa e dei due ragazzi più piccoli.
Che indirizzo scolastico avevi scelto?
Dopo la licenza media avevo fatto un anno di ragioneria. Anche se ero stata promossa non mi piaceva affatto, così cambiai decisamente ramo e mi iscrissi al liceo linguistico. Negli anni ‘80, nel triennio di scuola serale, si studiava inglese e francese che erano le lingue più importanti da conoscere. Non le studiavo solo a scuola: per perfezionarmi in inglese, i miei, che per l’epoca erano davvero avanti, mi mandarono in vacanza da sola per un mese a Londra. L’inglese lo sapevo già un pochino perché alle elementari mi avevano fatto frequentare dei corsi privati, di pomeriggio. Avevo quindici anni, e ne venne fuori una cosa strana: ero partita con un gruppo di italiani, e a parte quel poco di tempo in cui stavo con la famiglia che mi ospitava, stavo sempre coi miei connazionali. Anche volendo, inglesi a Londra, in agosto, mica li trovi tanto facilmente: anche loro vanno via per le vacanze! Come fai a parlarci, se non ci sono? Le bande di quartiere e i gruppi punk, invece, non si erano mossi di un millimetro. Ne incontrammo una gang al completo al piano superiore di un double decker (un tipico autobus londinese a due piani) armati fino ai denti con bastoni, mazze e pugni di ferro, incazzati neri perché a quanto pare, il piano superiore era loro territorio e noi eravamo gli invasori. Non ci avevano avvertiti che fosse pericoloso per i turisti girare, la sera! Andò a finire che questi punk ci cacciarono a forza dal bus e ci inseguirono perché abbandonassimo il campo il più velocemente possibile. Anche se riuscimmo tutti a metterci in salvo e senza un graffio, al mio rientro in Italia decisi che mi sarei iscritta a qualche corso di arti marziali: dovevo assolutamente imparare a difendermi.
Quali, esattamente? Prima di arrivare sul tatami avevi praticato altri sport?
Come ho detto in precedenza, i miei genitori fecero fare a tutti noi parecchi sport: mio padre mi insegnò a giocare a tennis (era molto bravo). Ho fatto corsi di nuoto ma ero un po’ imbranata: io e mia sorella siamo tuttora le uniche, in famiglia, a non saper nuotare in modo decente. Corsi di sci (e qui ero anche bravina), maratone. Imparai ad andare con le moto da cross perché avevo una compagnia di motociclisti. Dopo i quindici anni iniziai con le arti marziali.
In quel periodo erano molto in voga i film di Bruce Lee, e fu un colpo di fulmine: non sapevo nemmeno la differenza fra kung fu e karate, ma mi iscrissi in una palestra di karate e lo praticai per circa tre anni. Nello stesso tempo iniziai a praticare anche judo, ma con quello arrivai solo fino alla cintura marrone perché ad una gara di qualificazione mi ruppi il naso e andò a finire che lo lasciai perdere. Non arrivai mai a terminare il corso e arrivare alla cintura nera. Passai al kung fu e, infine, il kendo (la Via della Spada degli Antichi Samurai).
A ventotto anni, lo sport mi impegnava sei giorni la settimana, due ore al giorno, almeno inteso come allenamento. Oltre a questo c’erano gare e trasferte per vari stages.
Con il kendo esplose il mio amore per l’Oriente. Coinvolsi una mia amica e compagna di kendo e di judo ci iscrivemmo ad un corso triennale parauniversitario di giapponese, a Milano.
È il mio amore per il kendo che ha finito per portarmi a vivere esperienze fantastiche, completamente fuori dal comune. Quando c’erano le ferie, in agosto, dove pensate che andassimo, io e la mia amica? Ovvio che ne approfittassimo per volare in Giappone, trovare qualche palestra, fare amicizia con dei maestri, frequentare quelle gestite da loro e stringere rapporti profondi e duraturi. Evidentemente questa strane “gaijin” (“straniero occidentale”, in giapponese) dovevano avere ai loro occhi qualcosa di speciale, o il nostro amore per quel mondo doveva trasparire in modo particolarmente evidente, perché andò a finire che quando eravamo là, ci ospitavano sempre due maestri di kendo. Organizzate in tutto e per tutto da loro, le giornate erano una full immersion di allenamenti, fino a due ore tre volte al giorno. Pensate che normalmente, in agosto, in Giappone, ci sono spesso quaranta gradi con oltre il novanta per cento di umidità, e che il kendo si pratica con indosso un’armatura che pesa dai sette ai dieci chili! Forse perché per quanto duro fosse non ci lamentavamo mai, considerata la nostra costanza e la nostra dedizione, ci permisero di praticare in posti normalmente non accessibili alle donne, e più che mai alle donne straniere, ad esempio con la polizia di Kobe. È stato proprio in Giappone che ho preso il mio primo dan (cintura nera primo dan), fino ad arrivare oggi al sesto dan. E poi uscite, pranzi, cene… (Vi raccomando il cibo giapponese che è ottimo e non ingrassa). Le amicizie si sono cementate, la sintonia era totale.
E a parte lo sport, la tua vita come proseguiva?
A parte il lavoro, non avevo mai un minuto di tempo libero: dopo il lavoro c’era la scuola serale e la palestra, senza dimenticare che in casa, una donna ha sempre il suo bel daffare!
Eppure, sei riuscita a trovare anche il tempo di innamorarti e mettere su famiglia. Come ci sei riuscita?
Andiamo con calma: con il kendo andavo forte, e così tanta era la passione che sono arrivata a partecipare ad un campionato del mondo e a due campionari europei, di cui uno a Glasgow, alla presenza della regina Elisabetta e del suo consorte, il principe Filippo. Le arti marziali prendevano piede in Italia, e così come ero stata io ad andare in Giappone, ora erano i maestri giapponesi ad andare e venire qui per tenere poi lezioni nei vari dojo. Anche in palestra avevo fatto “carriera” e ora, il kendo, lo insegnavo. E ad un certo punto salta fuori dal nulla questo bel ragazzo. Era molto carino, vestiva bene, alla moda, aveva lunghi capelli rossi e occhi azzurri. Era romantico, gentile… insomma, proprio un bel tipo! Aveva visto su un giornale un articolo che mi riguardava e ne era rimasto colpito. Doveva conoscere questa strana donna innamorata del Giappone in generale e del kendo in particolare! Incuriosito, dopo essere venuto a vedere un paio di allenamenti si iscrisse anche lui a kendo e divenne mio allievo. Era molto assiduo, sempre presente agli allenamenti, se la cavava bene, e veniva con entusiasmo con noi agli stages all’estero, così cominciammo ad uscire insieme. Mi piaceva perché, a parte un bell’aspetto fisico, aveva quel tocco di pazzia che in un innamorato è sempre una carta vincente. Pensa che un giorno, era un sabato, all’uscita della palestra mi disse che mi avrebbe portata a fare un giro… Alla faccia del giro! Il giro del mondo, quasi! Siamo arrivati a Venezia a mezzanotte e siamo andati a dormire all’hotel Rialto, proprio sul ponte di Rialto! Duecentomila lire a notte, una cifra astronomica per noi a quell’epoca (era il 1991)!
Beh, ci siamo sposati in quell’anno.
E i maestri che arrivavano dal Giappone, ora potevano venire ospitati a casa nostra.
CONTINUA…
Erika Corvo