La fabbrica dei campioni – parte seconda.
E così, in mezzo a tutto questo, hai trovato anche il tempo per la maternità?
Ma sì, diciamo di sì. È che i figli arrivano anche quando non sono programmati! Nel ‘93 è nato il primo dei miei super figli (non perché sono miei ma i miei figli sono veramente una forza della natura). È stato proprio mio marito a decidere di dargli, come secondo nome, un nome giapponese. Si era particolarmente affezionato a Koichi Hasegawa, discendente di un’antica famiglia di samurai, uno dei maestri che avevamo ospitato in casa per un po’ di tempo. Mi trovò perfettamente concorde, così al nome Fabio (questo il nome scelto per il mio primo maschietto) si aggiunse Koichi, che signfica “primo figlio scintillante”
Nel ‘99 è arrivato Francesco “Akira”, il cui significato è “splendente, luminoso, chiaro”, e infine nel 2004 Luca “Yutaka” che vuol dire “abbondante, prospero, ricco”, terzo e ultimo tentativo perché mio marito aveva sperato fino all’ultimo in una femmina!
Premetto che nel ‘99 avevo già una certa età e questo, in una donna può comportare dei rischi durante la gravidanza. Il ginecologo consigliò le analisi che usavano all’epoca per capire se il feto potesse avere problemi, ma risultò tutto regolare e il bambino che aspettavo era sanissimo. Quindi, sicura del fatto mio, incinta di Luca Yutaka nel 2004, non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di perdere tempo a ripetere tutti gli esami. Perché sarebbe dovuto cambiare qualcosa? Perché avrebbe dovuto capitare qualcosa proprio a me, o al figlio che portavo in grembo? Bah, ma figurati! E invece, sorpresa, Luca Yutaka è nato con la sindrome di Down! “Aiuto” dirai tu, “meraviglia” dico io!
A parte lo sconvolgimento di mio marito che per circa 6 mesi è sembrato vivere su un altro pianeta, muto e assente, io non ho avuto il benché minimo pensiero negativo: mi misero in braccio un bellissimo bambino di quasi 4 kg, con gli occhi azzurri e pochissimi capelli, ma (anche lui come Francesco Akira) rossi. Certo, i dati medici certificati parlavano chiaro: era down, ma a guardarlo faticavi a distinguere la sua sindrome. L’unico dato negativo fu all’uscita dell’ospedale quando il primario mi disse, immaginando di consolarci: “Tranquilla signora, questi bambini riescono PERSINO ad andare a comprare il pane, se vi mettete d’impegno”!!!
A comprare il pane? Ma cosa sta dicendo??
Credimi, gli avrei volentieri rifilato un pugno sul muso e dentro di me mi sono detta: “Down o non down, questo bimbo farà vedere al mondo di che pasta è fatto!!”
Più che altro hai fatto vedere al mondo di che pasta sei fatta TU! Sei riuscita a trasmettere l’amore per lo sport a tutti e tre i tuoi figli? Parlaci un po’ di loro, perché da quanto ho capito, hanno raggiunto dei livelli incredibili!
Direi che non possiamo proprio chiamarlo “amore per lo sport”. Almeno non inizialmente. Fabio Koichi era un bellissimo bambino, anche lui con i capelli chiari (non rossi ma castani) e gli occhi azzurri (c’è da dire che nessuno dei miei figli ha preso da me, quanto a fisionomia). A nove mesi già camminava già e poco più tardi ha iniziato a volersi arrampicare sui mobili della sala, combinava un disastro dietro l’altro ed era alquanto difficile stagli dietro. Dato che le piscine con corsi di nuoto per bambini piccolissimi iniziavano a diffondersi ne ho approfittato, e a sei mesi l’ho iscritto ai primi corsi di attività in acqua. A tre anni l’ho iscritto ai corsi tradizionali di nuoto, e dai sette ai tredici anni in una squadra di nuoto. Ma in pratica lo obbligavo io, non è che a lui la cosa interessasse. Allo stesso modo lo portavo con me ogni volta che andavo a fare gli allenamenti di kendo… ma quello non gli interessava proprio e non c’è stato verso…
A tempo debito ho iscritto anche Francesco Akira (anche lui bellissimo bimbo con i capelli rossi e gli occhi azzurri), dopo i corsi regolari, nella stessa squadra di nuoto di Fabio Koichi. Adesso entrambi facevano due ore di nuoto tutti i giorni e la domenica le gare. Nemmeno loro avevano tempo libero: andavano a scuola fino alle 17 e alle 17.30 erano già in acqua. Nonostante questo o magari proprio per questo, la media scolastica era stabile sulla media dell’otto anche se non li vedevi molto sui libri, perché comunque erano capaci di un alto livello di attenzione a scuola. Il nuoto, in ogni caso, non era fatto per Francesco Akira, o meglio era Akira che non era fatto per il nuoto. Sono riuscita ad obbligarlo solo fino ai dodici anni, poi mi ha detto che era stufo e voleva cambiare. In ogni caso gli ha fatto solo bene, e tutti i bambini dovrebbero saper nuotare. Dopo il nuoto si è iscritto a judo, ma giusto il tempo di capire che nemmeno quello era fatto per lui. Ha fatto kick boxing per un paio d’anni, e lo ha lasciato totalmente insoddisfatto.
Anche Fabio Koichi purtroppo ha lasciato perdere il nuoto. Le giornate hanno soltanto e sempre ventiquattro ore e non poteva starci dentro: era cresciuto, ora frequentava la scuola alberghiera e nel contempo faceva tirocinio in un ristorante. Non avrei mai immaginato che proprio questa potesse essere la sua strada, eppure ora è un bravissimo cuoco e lavora in un ristorante a tre stelle! Una delle tante cose belle della maternità è proprio capire chi siano, cosa vogliano e possano fare i figli che hai messo al mondo. La passione per l’acqua gli è venuta solo in seguito, e ha ripreso le attività in piscina con la subacquea.
Nel caso che qualche mamma storca il naso all’idea dei figli obbligati ad attività sportive, o se state pensando: “che madre snaturata, costringerli a tutti questi impegni”, beh, sappiate che finché c’era palestra o piscina, la media scolastica era fissa sull’otto. Appena smettevano, si appiccicavano ai videogiochi, si incollavano al computer, alla Play Station, se non addirittura si mimetizzavano con la copertura del divano, si impigrivano e la media scendeva drasticamente.
Aiuto!! Fortunatamente questi periodi sono stati molto brevi. Morale: lo sport non ha mai fatto male a nessuno. Ricordatevi che lo sport fa parte della cultura esattamente come la scuola, e che il novanta per cento dei bambini, se non li si costringesse e non ce li si portasse trascinandoli per le orecchie, a scuola di loro iniziativa non ci andrebbero neanche morti! Secondo me bisogna che imparino a relazionarsi con i compagni, che il mondo ha delle regole e che bisogna adeguarvisi. Si forma in loro lo spirito di gruppo, imparano cose nuove e la mente si apre a nuove idee allargando gli orizzonti e le prospettive di vita.
La cosa ridicola, è che tra tutti e tre comunque, Luca Yutaka è quello che mi ha dato meno problemi. Fabio Koichi e Francesco Akira, per esempio, non hanno mai dormito né di giorno né di notte fino a oltre i tre anni ed ero sull’orlo di un esaurimento nervoso. Da grandi, poi, per portarli in piscina o in palestra, ogni volta era una litigata. Per fortuna avevo modo di sfogarmi in palestra, altrimenti non so come sarebbe finita…
Luca Yutaca, invece, grazie soprattutto ai suoi fratelli e al volerli emulare a tutti i costi, ha imparato a camminare presto per un bimbo con la sua sindrome, non voleva stare inattivo neanche un minuto e se non aveva nulla da fare, frignava.
Dunque? Cosa facciamo? Ma nuoto, naturalmente. Gli istruttori di Fabio e Francesco non ebbero alcun problema nel prendere subito in squadra anche Luca che, a sei mesi iniziò l’acquaticità con gli stessi insegnanti dei fratelli, e a quattro anni cominciò con le gare insieme ai suoi compagni di squadra normodotati. Con i nuotatori “normali” non ci stai soltanto se ti manca un braccio o una gamba. Se sei down, nuoti benissimo lo stesso.
Naturalmente, tutto questo, comunque, per me non era sufficiente anche perché si allenava per un’ora e mezzo “solo” tre volte a settimana! Dunque, che fare gli altri giorni? Ma Judo, naturalmente. Ha iniziato che aveva soltanto tre anni e ora, a sedici anni, è cintura marrone. Per ottenere la cintura nera, anche lui dovrebbe fare le gare, ma per ora non è possibile! E non è questione di volere o potere: attualmente, per la categoria down sono tutti più adulti e naturalmente più pesanti perché il judo gareggia per categoria di peso. Pazienza, c’è tempo! Ecco, lui, invece, ha fatto volentieri anche un po’ di kendo, con me. Qui siamo ad uno stage con uno dei miei maestri più importanti, dal quale lui ha preso il secondo nome: maestro Asami Yutaka, 8° Dan kendo
Da tre anni a questa parte gioca anche a baskin, che sta per “basket inclusivo”: un gioco di squadra che deriva dal basket tradizionale dove persone con la sindrome di Down giocano insieme a normodotati e diversamente abili, con ruoli e regole particolari. Proprio per queste regole create ad hoc, in questo sport, le diversità si annullano completamente. Indovinate un po’? Nella sua squadra di baskin gioca anche Francesco Akira (che all’inizio naturalmente avevo obbligato, ma ora, guai! Gioca quasi con più entusiasmo di Luca, mah!).
Non dimentichiamo, anche se non pratica di persona, la sua fanatica passione per il wrestling naturalmente del wrestling italiano soprattutto, che segue assiduamente e conosce a menadito!
Qui invece stava facendo rafting con suo fratello Francesco e la cugina Sofia (stessa età di Francesco)
Per ultimo, ma non meno importante, sempre da tre anni a questa parte Luca frequenta anche un corso di minimoto da cross.
CONTINUA…
Erika Corvo