Pensavo fosse un nome punk, come Johnny Rotten o Syd Vicious, che per un wrestler non fa una piega. Invece si chiama proprio Marcio, che però si legge Marsio, con la esse, perché arriva dal Brasile. Ha una storia veramente interessante, perché è stato adottato da piccolo e perché è gay. Non che al giorno d’oggi quest’ultima sia una notizia da scoop. È che tutti pensano al wrestling come una cosa da maschioni muscolosi tutti bicipiti e testosterone, aggressivi, cattivi… e invece eccolo qua, Marcio. La prima cosa che mi ha colpito di lui è stata la dolcezza. Ispira tranquillità. Ti siedi vicino a lui e stai bene. Riservato, tranquillo. Parla poco e dice cose sagge. Non se la tira, non ha niente di volgare, di rude o di aggressivo. Non rompe le scatole a nessuno. E possiede una dote unica, per il mondo del ring: sa diventare invisibile per far brillare l’avversario. Questa è una prerogativa classica del teatro, dove gli attori non protagonisti, quando c’è l’interprete principale sotto i riflettori, si annullano. Fanno in modo che il pubblico non tenga più conto della loro presenza per concentrare tutta la loro attenzione sulla star. Infatti viene spesso bookato nei match dove debba essere qualcun altro a vincere, e in maniera brillante. Lo vedi sul ring durante gli allenamenti, e lì, la star è lui. Bravissimo, un repertorio di mosse notevole eseguite alla perfezione e la rara capacità di trasferire quel che sa agli altri. Lo vedi negli show, e diventa invisibile. Senti la gente commentare: “mah, il brasiliano non mi piace, l’altro sì che ha fatto bella figura”, senza tener conto che se l’ha fatta, è solo perché c’era Marcio a fargli da spalla e l’ha messo in luce. In un mondo dove tutti se la tirano dicendo di essere i più bravi, i più fighi, i più tosti e devono vincere loro, è una dote rarissima, credetemi! Ma lasciamo a lui la parola.
Ciao, Marcio! È un onore averti qui con noi. Raccontaci qualcosa della tua vita: dove sei nato? Quando e in quali circostanze sei arrivato in Italia?
Dei miei parenti biologici so solo che mio padre è morto e che lavorava come guardia giurata. Dei miei genitori, quelli che mi hanno accolto, so che hanno spesso provato ad avere figli ma che non sono mai riusciti ad averne, a parte uno che morì quasi subito perché nato cerebroleso. Dalla morte del loro piccolino si demoralizzarono così tanto che decisero di non tentare nemmeno più di averne altri. Una telefonata però cambiò drasticamente le loro vite: gli chiesero se avessero voluto adottare tre bambini. Tre fratellini, tutti insieme! Mia madre rimase entusiasta dell’idea e dell’opportunità. Accettò con gioia e, dopo le pratiche burocratiche, eccoci qua in Italia. Mio fratello aveva cinque anni, mia sorella quattro e io che ero il più piccolo, solo due. Si sa che negli orfanatrofi in Brasile la situazione è quella che è: in pratica eravamo abbandonati a noi stessi. Basti dire che a due anni compiuti non sapevo ancora né parlare né camminare. Praticamente, non ho mai parlato in portoghese. Una volta in Italia, quando mi resi conto di essere di nuovo “in famiglia”, in una situazione normale, imparai subito entrambe le cose e recuperai il tempo perso. Di quel periodo ricordo soltanto che mio fratello non voleva venire a vivere qui.
Come ti sei trovato nell’ambiente di un piccolo paese di provincia?
Onestamente, ricordo la scuola come un periodo negativo. Vent’anni fa gli stranieri erano visti male forse anche più di adesso, e sappiamo tutti come i bambini possano essere crudeli nei confronti dei loro coetanei. Mi chiamavano talvolta “negro di merda” (da piccolo ero molto più scuro di adesso), ma non mi sono mai sentito offeso: non avevo scelto io il colore della mia pelle. Non avrei voluto essere scuro. Casomai avrei tanto desiderato essere come i miei compagni, che avevano i capelli lisci e gli occhi chiari. Per questo non avevo molti amici, da bambino. Giocavamo spesso in cortile coi nostri vicini, ma tutto sommato preferivo passare il tempo a giocare con mio fratello maggiore e credo che anche per lui sia stata la stessa cosa. Ci sentivamo più a nostro agio, tra di noi. Sono sempre stato molto selettivo nello scegliermi gli amici, e non bastava che si giocasse assieme perché considerassi qualcuno un amico piuttosto che un semplice compagno di giochi. Se gli amici scarseggiavano, avevamo però un sacco di cuginetti. Ci vedevamo molto spesso per giocare e ci vediamo spesso ancora oggi. Con loro era diverso, avevamo legato bene. Quando andavamo nella nostra casa di montagna, durante le vacanze, avevamo molti più amici con cui giocare: venivano da città grandi come Milano ed erano di mentalità molto più aperta dei nostri compaesani, con le menti limitate dalla cultura ristretta di un piccolo paese di provincia. Facevamo le solite stupidaggini che fanno tutti i ragazzini, ce ne andavamo al lago a tuffarci giù dai ponti o si passavano i pomeriggi e le serate davanti alla Play Station. Lentamente sono cambiati i tempi e la mentalità, ma ormai eravamo cresciuti.
Quali erano i tuoi hobby e le tue passioni?
Ho sempre adorato le automobili. Mia madre racconta spesso che la prima parola che dissi non fu mamma o papà, ma “carro”, che in portoghese vuol dire automobile. Mio padre faceva il meccanico per una concessionaria del mio paese e, ogni volta che passavo a salutarlo in officina non perdevo l’occasione per salire su tutte le macchine che c’erano in officina e immaginare di guidarle. Al sabato, papà lavorava in un kartodromo: e allora, come rinunciare a qualche giro in pista? Avevo dieci o undici anni quado cominciai a correre con i kart a livello amatoriale, ma farlo sul serio costava tanti soldi. Troppi. Per quanto i miei mi volessero bene, con lo stipendio da operaio e tre figli da sfamare non poteva che rimanere un sogno. Mi consolo pensando che crescendo sono diventato troppo alto e pesante per una carriera sui Kart, dove un chilo in più o in meno può fare la differenza. L’altra mia passione erano i manga. Passavo ore e ore chino sul banco a disegnare, piuttosto che ascoltare la lezione. Mi sarebbe piaciuto fare il liceo artistico, ma bisognava pensare a cose pratiche. Con l’artistico, senza proseguire all’università non sarei andato da nessuna parte, così i miei mi iscrissero ad una scuola professionale. Fu proprio lì che nacque la mia passione per il wrestling, quando un compagno mi passò una cassetta VHF: la Royal Rumble 2004. Vedere il “Last Standing Man” in cui si affrontavano due grandi amici: Shawn Michaels vs Triple H. Fu un colpo di fulmine. Col senno di poi capisco che non fosse una cosa molto sana, ma provavamo ad imitare le mosse dei nostri idoli durante l’orario di scuola! Beh, il mio compagno, in seguito è diventato Goran il Barbaro, e con lui ho iniziato la mia carriera di wrestler.
Che studi hai fatto e che lavoro fai, per vivere?
Appassionato di motori e di macchine com’ero, avrei tanto voluto lavorare nel mondo delle auto con mio padre, e invece ora lavoro come saldatore per un azienda legata alla Fiat nel settore dei macchinari per il movimento terra. È un mestiere piuttosto pesante, richiede molta forza fisica e devi essere molto concentrato per operare su macchinari pericolosi e costosi. Utilizzo dei robot di saldatura automatici che tuttavia richiedono l’intervento dell’occhio umano per le rifiniture. Il lato positivo di fare i turni è che mi lascia il tempo di allenarmi in palestra. Il lato negativo è che le botte prese durante gli allenamenti al sabato, il lunedì si sentono ancora molto bene, non hai il tempo per recuperare
Che altri sport hai praticato?
Tanti, tanti davvero, ma senza nessuna passione particolare: dalla danza al kick boxing, dal nuoto al karate, basket… ma dopo un po’ mi annoiavo e smettevo di andarci. Non mi trasmettevano entusiasmo, non mi davano stimoli, non c’era niente da sognare… era solo ginnastica. Sono serviti solo a farmi capire quanto ami il mio sport, il wrestling! Non c’è paragone: qui è passione, voglia di fare sempre meglio, crescere, emozionarmi ed emozionare.
E poi, come sei arrivato al wrestling? Come hai trovato la scuola dove hai iniziato ad allenarti?
Ho cercato per molto tempo se ci fosse una scuola di wrestling vicino a casa. Dovete sapere che dieci anni fa non c’erano gli smartphone e internet non era così diffuso come ora. Non avevo nemmeno un mio computer, ci si doveva arrangiare con le occasioni che si creavano. Dato che a scuola durante l’ora di informatica avevo accesso a internet, frugai il web da cima a fondo finché non trovai un polo ICW. Chiamai subito per poter fare un allenamento di prova, naturalmente insieme al mio amico Alex (Goran il Barbaro). Devo ringraziare mia madre, che due volte la settimana, con tanta pazienza ci portava in palestra, e c’era un’ora di macchina da fare tra andata e ritorno più il tempo di permanenza nei locali. Nei giorni in cui facevamo gavetta negli show di tutta Italia, svegliavo quella santa donna alle tre o alle quattro del mattino perché ci venisse a riportarci a casa da Bergamo. Per fortuna l’anno dopo, sia io che Alex eravamo diventati maggiorenni, e tutta la faccenda assunse contorni più vivibili e più gestibili. Potevamo azzardarci a fare da soli. Raramente ci è capitato di tornare a casa ammaccati di brutto, dopo un match. Ce la siamo sempre cavata con poco. Come allenatori c’erano all’epoca Ace e Alberto C. (Kobra). Ai tempi erano grandi amici ma dopo pochi mesi ci furono divergenze di opinioni. Litigarono, e Ace se ne andò da ICW. Il polo di Bergamo rimase in mano a Kobra e Lucas (Black Jack). Come in tutte le situazioni dove c’è da impegnarsi a fondo, non tutti gli iscritti proseguirono: molti ragazzi si ritirarono dagli allenamenti. Io rimasi perché avevo davvero passione, e diventai presto uno dei più esperti e promettenti. Poi, altri ragazzi arrivarono, rimasero e ce la misero tutta. Alcuni di loro fanno tuttora parte del roster ICW, come Simon Silas, Ombra, Leon, Mišo Mijatovič , Dinamite Jo, Taurus, Tenacius Dalla e Akira. Senza vantarmi, Kobra riconosceva le mie capacità e lasciava spesso e volentieri che ci fossi anch’io ad allenare, insieme a lui.
E com’era, Kobra, come maestro?
Secondo la mia opinione, Kobra è attualmente il migliore allenatore in Italia. Sono stato con lui più di dieci anni e ho visto uscire dalla sua palestra molti dei migliori atleti ad oggi sulla scena e parecchi campioni. È intelligente, Kobra; una delle persone più intelligenti che abbia mai conosciuto. Capiva le persone e ci sapeva fare, così non aveva bisogno di essere particolarmente severo: riusciva a far comprendere a tutti le cose che spiegava durante le lezioni. Senza bisogno che dicesse parola, ognuno sapeva come dovesse comportarsi e cosa dovesse fare e riusciva a creare il giusto mix tra i suoi allievi, sia come avversari che come compagni di tag. Creava spirito di squadra e senso di complicità. E poi era un gran compagnone per tutti! Sì, sì… il miglior preparatore atletico in Italia.
E poi, come ti è venuto in mente di cambiare federazione?
Ad un certo punto ho deciso di volermi mettere alla prova sul serio. Molta gente del settore è convinta che uno sia bravo soltanto se è tesserato con la ICW. Io vorrei dimostrare che si possa essere un bravo lottatore anche fuori di questa, e che si possa collaborare e combinare cose belle e buone con altri ottimi atleti di altre federazioni. Chi ha talento riesce ad emergere in ogni caso, anche fuori dalla ICW.
Cosa ricordi del tuo debutto?
Ormai sono dieci anni che salgo sul ring. Il mio primo match fu nel 2005 o 2006 in un “tre contro tre”. Eravamo io, Kobra e Goran contro Zero, Zodiac e Zella. Sono stato agitatissimo e molto in ansia per tutto il match. A pensarci ora, mi sembrava chissà quale difficoltà, mentre non era proprio niente di speciale. Una cavolata: poco più di un normale allenamento di academy, ma con il pubblico. Ci saranno state sì e no venti persone e le gimmick erano ridicole e prive di senso (e qui, Marcio ridacchia, ricordando). Una vera schifezza, imbarazzante davvero!
Quando e in che modo hai realizzato di essere gay?
A dire il vero non so esattamente come sia cominciata la cosa, so solo che a un certo punto mi sono accorto di provare sentivo sensazioni diverse da ciò che era considerato “normale”. Stare con le ragazze non mi diceva granché, non mi eccitavano, mentre quando stavo coi miei compagni maschi, magari nello spogliatoio quando ci cambiavamo per fare educazione fisica mi sentivo a disagio: cercando di non dare nell’occhio, guardavo il fisico dei miei compagni e mi sentivo turbato.
Quando l’hai detto in famiglia, come l’hanno presa?
In famiglia lo dissi quando volli ufficializzare che mi fossi messo con un ragazzo. Devo dire che la presero bene, senza drammi e senza problemi. Anzi, mia madre se ne venne fuori a dire che già da tempo sospettava la mia omosessualità. Evidentemente i miei turbamenti, per lei erano visibili. Con i miei fratelli non ci fu alcun problema: lo accettarono e basta.
E nel backstage, com’è andata?
Tutto sommato, è andata bene! All’inizio ero bloccato e, prudentemente, tacevo. Perché anche solo scherzando tra maschi volavano spesso battutine pungenti sull’argomento, e a nessuno fa piacere essere preso in giro oppure oggetto di battute pesanti o volgari. Col tempo ho raggiunto una notevole serenità interiore, e a quel punto non mi interessava più tanto che cosa avrebbero potuto dire o pensare i compagni di spogliatoio. Avevo la consapevolezza che ognuno ha diritto a vivere come gli pare meglio, e che certi atteggiamenti non siano “scelte”. Si nasce così e basta.
Cosa pensano i colleghi di lavoro, del fatto che fai wrestling?
Sul posto di lavoro molti erano incuriositi dal fatto che praticassi questosport, in Italia non è che ti capita tutti i giorni di avere come collega un lottatore di wrestling! Alla prima occasione li invitai a vedere uno show in cui mi esibivo anch’io, lì nella nostra zona. Il giorno seguente mi riferirono di essere rimasti tutti entusiasti, sia dell’evento in sé stesso che della mia prestazione sul ring. Mi conoscevano nella realtà quotidiana come una persona pacata e tranquilla, e non si aspettavano di vedermi sul ring così aggressivo e determinato.
Sei molto alto e longilineo. Pensi che sia un vantaggio o un handicap?
È indubbiamente un gran vantaggio: questa struttura fisica ti consente di cimentarti in diverse tipologie di match senza troppi problemi. Se mi fanno combattere contro qualcuno grande e grosso sembro magrolino. Se mi mettono contro uno basso, sembro enorme!
Qual è il tipo di match che preferisci?
C’è da dire che ogni tipo di match ha le sue attrattive e peculiarità. I match in cui sono coinvolti tre o quattro atleti sono molto più spettacolari dei classici “uno contro uno”. Tutto è più veloce, ha più ritmo, non c’è un momento di pausa e l’adrenalina sale alle stelle. Il classico incontro tra due avversari, però, ha più intensità emotiva. C’è una storyline che ti spinge a tifare per l’uno o per l’altro, ci sono in gioco le emozioni che hanno portato i due a scontrarsi. C’è spazio sia per le acrobazie che per la brutalità e la pura forza fisica. Io, personalmente preferisco i match acrobatici e con una storyline coinvolgente. Tra i miei preferiti ricordo quello di Hogan vs. André the Giant e Kurt angle vs. Eddie Guerrero a “No Way Out”, con la storia dello stivale sfilato via.
Faresti qualche match hardcore?
Non sono più un ragazzino incosciente convinto di essere invulnerabile. A questo punto della mia carriera e della mia vita, onestamente non mi va di rischiare di farmi seriamente male per divertire qualcuno. Un infortunio serio significa mesi e mesi di stop, operazioni chirurgiche, spese mediche, riabilitazione, cure, dolore… Non ne vale la pena. Magari ne farei uno per sfizio personale o per qualche occasione speciale, ma di sicuro non lo farei regolarmente ad ogni evento.
Ti sei mai fatto male seriamente?
Durante uno show, mai, per fortuna.
Se dovessi cambiare gimmick, che cosa ti piacerebbe fare?
No, non credo vorrei mai cambiare. In fondo, questa del brasiliano rappresenta appieno la mia personalità: un uomo che prende le distanze dal proprio passato cercando di costruire il suo presente combattendo giorno per giorno.
Che ne pensi del wrestling italiano, con tutte queste federazioni che combattono più sotto che sopra il ring?
In questo momento, in Italia ci sono un’infinità di federazioni. Spuntano come funghi. Troppe. Per giunta, non pensano ad investire in eventi credibili o a mettere sul ring ottimi atleti: si accontentano di esistere e litigare. Dovrebbero pensare a migliorarsi, ad attirare pubblico, creare buoni atleti, dare una buona impressione all’estero. Ci vorrebbe più umiltà e meno chiacchiere. Accettare, se è il caso, la propria inferiorità, chiedere aiuto a chi ne sa di più, collaborare per far crescere la qualità. In questo modo non si va da nessuna parte. Noto un egocentrismo fatto di frecciatine e battutacce inutili che servono solo a renderci ridicoli sia in Italia che all’estero.
Quali sono i tuoi obiettivi futuri?
Ho buttato via anni e anni nel tentare, con tanti altri bravi wrestlers, di rendere questo sport credibile e godibile per il nostro pubblico, riconosciuto a livello nazionale e apprezzato all’estero. Non ci siamo riusciti. Al punto in cui sono, ho intenzione di allenare le nuove generazioni e sperare che siano loro a portare avanti il testimone e costruire qualcosa di meglio di quanto non abbiamo fatto noi.
Tirando le somme dopo dieci anni di ring: cosa ti ha lasciato soddisfatto e cosa con l’amaro in bocca?
Tante, troppe cose mi hanno lasciato amareggiato. Avrei voluto diventare un personaggio di peso del wrestling italiano, combattere contro grandi stranieri, sfondare almeno a livello europeo. Non è successo niente di tutto questo, e non per colpa mia. Qui i calciatori sono fighi anche se militano in serie C. Un wrestler non è nessuno, o forse è solo un pagliaccio. Non sono assolutamente soddisfatto di tutto quello che è stato finora perché c’è ancora tantissimo lavoro da fare. Dobbiamo prima di tutto imparare a collaborare tra noi, lavorare per appassionare il pubblico, dare l’opportunità alle nuove generazioni di potersi allenare in suole sempre più serie e professionali e portarci a livello delle altre realtà già presenti in Europa. Ma, come dicevo, amo il wrestling anche per questo: ti dà la possibilità di migliorare continuamente e di porti obiettivi ogni volta più ambiziosi!
La solita polemica: il wrestling è finto; ma no, è vero, è troppo violento… cosa risponderesti? Come lo spiegheresti a un bambino?
Ad un bambino direi che ci sono regole da rispettare e la prima in assoluto è portare rispetto all’avversario. Che le mosse che vede sul ring sono a tutti gli effetti tecniche di combattimento vere e proprie, e allora bisogna eseguirle nella maniera più sicura possibile. I combattimenti veri sono violenti, ma il wrestling è una simulazione. Devi essere forte, deciso, convincente, atletico, un po’attore e un po’pagliaccio… ma non violento. La violenza è un’altra cosa.
Se qualcuno (compagno, familiare o altro) ti dicesse: “Scegli! O me o il wrestling”, tu che sceglieresti?
Penso sia una cosa da decidere sul momento, a seconda di chi sia a porti l’out out. Sceglierei d’impulso.
Come ti vedi, tra dieci anni?
Oltre che più vecchio, con le rughe e i capelli brizzolati, purtroppo? Mah, non ci ho mai pensato. Cerco, casomai, di vivere giorno per giorno e di essere me stesso. Mi basta.
Devi convincere qualcuno che non ha mai visto un incontro a venire a vedervi. Cosa gli diresti?
Direi che ogni cosa vissuta dal vivo è molto più emozionante di qualsiasi cosa vista da uno schermo. L’atmosfera elettrizzante si percepisce come se fosse solida, tangibile. Il pubblico che ha mille voci ma sembra diventi una voce sola, il calore, l’emozione, le luci che si abbassano al momento di entrare in scena… se lo vivi anche una volta sola, ti entra dentro e non puoi più rinunciare.
Rispondi con una sola parola a questo fuoco di fila:
Vita: Tempo
Amore: Sofferenza
Lavoro: Salute
Gioia: Amore
Dolore: Delusione
Amici: Fratello
Religione: Compassione
Vacanze: Vita
Letture: Meditazione
Televisione: Cartoni animati
Faceboook: Universalità
Casa: Riposo
Passato: Dolore
Futuro: Speranza
Tempo: Sole
Soldi: Merda
Successo: Impegno
Vecchiaia: Riflessione
Vuoi lasciarci con un aforisma, o una frase che senti particolarmente tua, o che ti riassuma?
Più è grande l’umiltà e il rispetto in un uomo, più è grande l’umanità in lui!
Grazie di essere stato con noi, Marcio! Sarà un piacere come sempre, venire a vederti!
Erika Corvo